La recente pubblicazione del dossier Fbi su Steve Jobs è datata 1991, esattamente dieci anni prima della nascita del primo iPod. E’ un documento vecchio, dannatamente vecchio, realizzato per altro in un momento storico particolare, canto del cigno dell’ossessione anti-comunista statunitense che in questi pop-dossier ha il suo risvolto più grottesco.
E’ curioso notare però come l’indagine dell’agenzia governativa, scandalosa quanto un pettegolezzo da bigotto puritano, metta in scena l’identità di un uomo che ha rappresentato, e rappresenterà ancora per i prossimi anni, il nostro tempo. Non era, si legge nel dossier, “un ingegnere nel vero senso della parola”, ma un uomo che “capisce di tecnologia a livello base”. Niente di sorprendente. Infatti perché mai Steve Jobs avrebbe dovuto sapere come si realizza tecnicamente un computer? Sarebbe una cosa degna di un genio divino. Non solo un Ceo, ma un ingegnere specializzato: 80 anni di aspettativa di vita media non sarebbero minimamente sufficienti a ricoprire entrambi i ruoli. Egli stesso, nel suo famoso discorso alla Stanford University, ha raccontato una storia professionale fatta non di lauree e cattedre ma di font e strategie di vendita. Stay hungry, stay foolish non è il motto di un ingegnere, ma di un venditore. Stefano Lavori, come l’ha parafrasato Antonio Menna in una divertente parodia, non è stato nient’altro che l’anima del marketing della Apple, ovvero colui il quale non ha fatto il mac, l’iPod e l’iPad, ma l’ha ideato. Il che è una differenza importante. Una differenza che mette da un lato l’ingegnere, dall’altro il venditore. Allargando la visuale si arriva alla differenza, in apparenza drammaticamente separata ma mai così felicemente sposata come oggi, tra il sistema produttivo e una moderna, accattivante, bella, strategia di marketing. Sfruttamento e consumo. Iperproduzione delocalizzata e prodotti bellissimi. Due elementi apparentemente contradditori, ma mai così in armonia in quel vecchio vincolo che si chiama capitale.